Quei “bori” sul treno per Ostia. Un racconto culturale dell’estate.

Il racconto diventato virale sui social del viaggio affrontato da Alain Elkann per raggiungere Foggia con i Lanzichenecchi è diventato un genere letterario.

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UniversiNet.it – Al mio ritorno da Foggia, uno spiritoso amico, assiduo frequentatore di terrazze romane al tramonto mi ha sfidato a raggiungere Ostia in Treno. Raccolsi la sfida è la mattina successiva mi presentai all’appuntamento col destino. Io, nonostante il caldo, ero vestito con una elegante divisa da viaggiatore, una polo bianca e pantaloni khaki. Avevo uno zaino in pelle dalla quale ho estratto i miei giornali: Paris Match, Il Times di Tokyo, La Gazzetta del Polo e il supplemento culturale di Cavalli e Cani . Stavo anche finendo di leggere “1984” di George Orwell. Ho estratto anche un taccuino dove appunto i miei pensieri con una penna a sfera. Non avrei mai pensato di usare ancora il termine “bori” a bordo di un glorioso mezzo di trasporto della nostra capitale, eppure, durante il mio viaggio da Roma San Paolo ad Ostia Lido, è esattamente ciò che ho scoperto. Ero accovacciato in un vagone del glorioso “Freccia del Mare” appena riverniciato di una bella livrea azzurrina che gli è subito valsa il soprannome di “principe azzurro” da parte della Sora Maria. Dopo aver scoperto con disappunto che non esisteva una prima classe, mi accomodavo, trascinato dalla folla urlante all’apertura delle porte. Il mio posto era rischiosamente vicino al finestrino sigillato, accanto a un ragazzino di circa 16 o 17 anni.

Il vagone era un caleidoscopio di corpi abbronzati e abiti succinti. Costumi da bagno sgargianti, canotte svolazzanti, infradito e occhiali da sole erano la divisa di ordinanza. Era una fiesta di colori e tessuti leggeri, il linguaggio della moda balneare sussurrava un messaggio di libertà e spensieratezza per una gioventù orgogliosa della propria ignoranza come delle loro “Tn Nike” ai piedi.

Ad ogni fermata un alito misterioso, come quelli di un drago soffiava per chiudere le porte con difficoltà mentre la feroce canicola riempiva ogni anfratto de mio vagone.

Questo ragazzino accanto a me, con un vecchio iPod e cuffie ingiallite per ascoltare musica, sembrava completamente immerso nel proprio mondo. Intorno a noi, un coro di voci parlava di ragazze e mare, vita estiva e tutte le sue libertà compresa quella sottile violenza di una cassa Bluetooth che sparava tormentoni a palla.

“Non è che dobbiamo stare soli di sera: andiamo a cercare ragazze ai chioschi sulla spiaggia”, na “biretta e un Calippo” ed il gioco è fatto, ha dichiarato uno, con un sorriso da conquistatore. “Macché chioschi!”, ha risposto un altro, scuotendo la testa. “Bisogna beccare le ragazze direttamente in acqua, poi la sera le inviti per un aperitivo o una grattachecca e provarci. La spiaggia è il posto più figo per rimorchiare”.

Nel frattempo, io cercavo di mantenere la concentrazione sul mio libro, “1984” di George Orwell, in mezzo a questa metropolitana sudicia e affollata. Ero un estraneo per loro, un uomo con un libro in mano e abiti troppo formali per il contesto, un essere che ancora preferisce la carta e la penna.

Dovevamo ancora arrivare a Ostia Lido, e i minuti diventavano ore. Il treno avanzava lentamente, come un vecchio asino stanco, e il mio viaggio sembrava diventare un’odissea senza fine. Acilia, Ostia Antica, non pensavo si dovesse passare da Acilia per andare ad Ostia. I ritardi e il caos sembravano non disturbare i passeggeri, troppo presi dalle loro discussioni su ragazze, gelati e spiagge.

Infine, giunti ad Ostia Lido, mi sono alzato, ho afferrato il mio zaino e ho cercato di farmi strada tra la folla. Nessuno mi ha salutato, forse perché non mi vedevano. Io non ho salutato nessuno, troppo stanco e frustrato da quella selvaggia esperienza sul “principe azzurro”. Ero sollevato di lasciare dietro di me quei giovani “bori” senza nome.

Redazione Universinet Magazine
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